Tanti anni fa, proprio come nelle fiabe più classiche, nel piccolo paese dove abito tutt’ora, c’erano la bellezza di quattro bar; io parlo dell’ultimo, quello in fondo alla strada dove il paese finisce e che i più hanno conosciuto come “Manganello”, ma che in realtà, era stato precedentemente ed egregiamente gestito da Pietro e da sua moglie Lina di Vinaccia (Per non confonderla con Lina d’Omero dei bagnetti pubblici o con Lina del Calloni).
Mio nonno Domenico, con gli occhi azzurri come quelli di miei figli, da lavoratore, glorioso tranviere sulla tranvia che attraversava tutto il borgo fino alla piattaforma girevole dove il tram faceva dietrofront per ritornare a Lucca, e, da pensionato, glorioso bevitore di vino assieme con l’amico calzolaio Lanciotto, era un assiduo frequentatore di questo bar/trattoria.
Io, ero il primo ed unico nipote maschio di Domenico e lui, con orgoglio, mi portava in giro per farmi vedere ai suoi amici; credo di essere stato, in assoluto, il più giovane cliente di Pietro e Lina. Cliente, non semplice visitatore, in quanto mio nonno, appena arrivati, si sedeva al tavolo subito a destra sotto la moscaiola, mi metteva a cavalcioni su una gamba e ordinava un “piemontesino” di vino rosso per sé e uno di vino, sempre rosso, ma dolce, per me.
Sembra incredibile visto che nonno mi ha lasciato, con mia grande disperazione, dopo solo un paio d’anni, quando io non ne avevo ancora compiuti cinque, ma è la pura verità: sinceramente, non ricordo se il bicchiere che mi portavano fosse del tutto pieno, se Lina me lo allungasse con l’acqua, o se mio nonno me ne bevesse un bel po’ senza che io me ne accorgessi.
Sta di fatto, che questa era la prassi di tutti i giorni, alle quattro e mezzo/cinque e cioè, una mezz’oretta dopo che io e Domenico ci eravamo alzati dal suo lettone coi riccioli in ferro battuto in seguito al riposino pomeridiano.
Tutti i giorni, finché una domenica, con un bel vestitino di lana bianco e nuovo di zecca, mi portò dagli amici e poco dopo mi riconsegnò a mamma con una bella patacca rossa sul petto: addio vino dolce, addio amici di nonno, addio canzoni del ‘15/’18, ma, soprattutto, addio polpette.
Eh sì, perché mio nonno, coscienziosamente, avendo paura che potesse darmi noia bere a stomaco vuoto, prima di tutto si preoccupava di ordinarmi una polpetta.
Sono cresciuto, Lina di Vinaccia è vissuta ancora per molti anni dopo la scomparsa di Pietro e, ogni tanto, quando veniva a trovare mia madre, le portava una torta d’erba buona come non ne ho mai sentite; buonissima, morbida, eccezionale, tutto quello che volete, ma niente in confronto a quelle polpette…
Non chiesi mai a Lina se annacquava il mio vino per paura della risposta, ma delle polpette sì, quello glielo chiesi.
E finalmente, un giorno, mi “svelò” la sua ricetta.
In effetti, niente di trascendentale, tutti sapete come si fanno le polpette: lesso di manzo e arrosto avanzati, aglio, prezzemolo, pane raffermo ammollato nel latte, uova, sale, metà parmigiano e metà pecorino, pane grattato, insomma i soliti ingredienti per le polpette.
Perché le sue erano così morbide e così saporite?
Morbide perché lei non metteva poco pane, ma faceva addirittura 50% di pane non ancora ammollato e 50% di carne (se non 60 e 40) e metteva un solo uovo nonostante ne facesse in quantità notevole. Poi, l’esperienza insegnerà a dosare alla perfezione il pepolino che, secondo me, è l’ingrediente principe dell’impasto, ed il pepe che deve essere messo con generosità. Lina, magari, era anche troppo generosa perché la gente doveva bere e sul piccante si beve di più e volentieri. Sarà colpa delle polpette se mio nonno e Lanciotto, il sabato e la domenica sera arrivavano a casa reggendosi l’un l’altro?
Comunque, tornando alla ricetta, il pepe ha un aroma e un profumo inconfondibili e ineguagliabili che non possono essere sostituiti dalla pur buonissima noce moscata che molti aggiungono all’impasto.
E’ fatta; basta dare la classica forma ellittica (non rotonda!) e schiacciata sopra e sotto per favorire la frittura, passarle nel pane grattato e buttarle nell’olio bollente. Ma non levatele appena cominciano a dorarsi tenetele qualche istante in più in modo da farle scurire un po’; il fuori sarà bello croccante e dentro la morbidezza che scoprirete vi darà, con tutti i suoi profumi e sapori, il meritato premio alla vostra “fatica”.
Mi ha sempre raccontato mia madre che per più di un mese mi sono svegliato tutte le notti piangendo e chiamando nonno Domenico con tutto il fiato che avevo in gola; ed in effetti, a distanza di sessant’anni, mi sembra di vederlo qui, davanti a me, con quel suo sorriso ironico, il gilet con la catena dell’orologio a cipolla di cui andava fierissimo e il Borsalino rigorosamente sulle ventitré.
E’ per questo che quelle rare volte che mi viene in mente di farmi le polpette, sono costretto a mangiarle con gli occhi umidi. Come ora…